Chiedo infinitamente scusa al sommo Alalà se mi concedo la licenza di narrare un fatto che, per diritto e competenza, spetterebbe a lui.
Veniamo al dunque.
Correva l’anno 1938, XVI. Le nostre Ferrovie dormivano sugli allori, mentre altri erano capaci di raggiungerle e superarle: era oramai già un ricordo il primato degli ETR 200, mentre la perfida Albione lanciava oltre i duecento all’ora una filante, aerodinamica vaporiera azzurra.
“Duce”, diceva il Pavanati giungendo trafelato a palazzo Venezia, con in mano un dispaccio d’agenzia, “gl’Inglesi hanno raggiunto i duecento chilometri orari con una macchina a vapore, laddove la nostra locomotiva più veloce non riesce che a toccare i centotrenta! “Boja d’un mond leder”, rispose il Duce in un digrignar di mascelle, “non si può star tranquilli un momento!”, mentre il manganello n° 12, con il manico in avorio istoriato di pietre preziose, aumentava pericolosamente la velocità di rotazione tra le sue mani. “Corri, va’ a chiamare quel mangiapane a ufo del Bianchi, che mi trovi una soluzione per far ingoiare la polvere agl’Inglesi!”
Dopo un rapido giro di telefonate, entro pochi minuti un’auto ministeriale portava a Palazzo il Bianchi, il cui passo sicuro rivelava aver già pronta la sua fervida mente una soluzione idonea.
“Duce, la Patria soffre le ingiuste sanzioni comminatele dalle potenze avverse”, iniziò il Bianchi, “per cui, data la penuria di carbone, non ci è possibile battere in velocità le ferrovie britanniche colla tecnica del vapore. L’unica strada per noi percorribile è quella della trazione elettrica: abbiamo già il sistema trifase a sedici periodi e due terzi; ne abbiamo saggiato le potenzialità aumentando la tensione a diecimila Volta e la frequenza a cinquanta periodi, ma ciò non ha dato i risultati sperati; è andata meglio con la continua a tremila Volta, ma anche quest’ultima pare avere dei forti limiti tecnici qualora si desideri raggiungere velocità maggiori di duecento chilometri orari; non resterebbe che la corrente alternata monofase, in cui i nostri alleati Tedeschi sono all’avanguardia, ma occorrerebbe saggiarne le potenzialità ad almeno venticinquemila Volta e cinquanta periodi, per raggiungere quei duecentocinquanta chilometri orari che potrebbero polverizz...” “Basta così”, tuonò il Duce, “mi avete rotto le scatole con tutto questo parlar di periodi e di Volta. Bianchi, voglio che mettiate a punto al più presto il nuovo sistema d’alimentazione!”
“Con tutto il rispetto, Eccellenza, occorrerebbe condurre delle prove con una prima serie di locomotive su una o più linee da elettrificare ex-novo, su cui gravi un traffico non eccessivo, per evitare errori che possano esporre la Patria al ridicolo. Se permettete, suggerirei…” non fece in tempo a finire la frase, che già il Duce, protundendo la mascella volitiva, con piglio deciso avea vergato alcune righe su un foglio di carta intestata, in calce al quale aveva apposto la firma.
“Toh, prendete, Bianchi! Vi do la Sardegna intiera, contento? Da Cagliari a Porto Torres, da Olbia a Carbonia, elettrificatela tutta come diavolo vi pare! Qui c’è l’ordine per venticinque nuove locomotive: fatele fare anche d’oro, purché servano a tacitare il vaniloquio trionfalista d’oltre Manica!”
Raggiante per il risultato ottenuto, il Bianchi si mise tosto al lavoro. Mentre sull’isola fervevano i lavori per la posa di pali e catenaria, negl’italici opifici di costruzioni ferroviarie vedevano silenziosamente la luce le nuove macchine elettriche che, proseguendo il sistema di numerazione già in uso su locomotive a corrente alternata (E 431/2, E 471/2) si sarebbero chiamate E 491 ed E 492. E se gl’Inglesi avevano verniciato d’azzurro una vaporiera, per quanto moderna e veloce, allora il Regime avrebbe potuto dipingere di rosso e giallo queste nuove macchine, destinate ad un futuro radioso come la luce del sole.
Venne il giorno della presentazione: le locomotive erano state portate a Civitavecchia, pronte per l’imbarco verso la Sardegna. Un breve tratto della linea verso Capranica era stato elettrificato con il nuovo sistema sperimentale, per permettere la sfilata delle E 491/2 sotto tensione. Era stata organizzata una fastosa cerimonia inaugurale: il Duce e i gerarchi in camicia nera erano giunti da Roma sull’Elettrotreno Salone; il Treno Reale era stato scomodato dal suo torpore per permettere anche alla Casa regnante di assistere all’evento, mentre un ETR 200 portava in loco altre personalità eccellenti dell’epoca. Lungo le banchine della stazione era stato allestito un buffet a base di culatello, cappelletti al ragù e in brodo, ciccioli e quant’altro, il tutto annaffiato da abbondante lambrusco.
Mentre i convitati approfittavano di questo ben di Dio, le prime E 491/2 facevano il loro ingresso in stazione, sul binario elettrificato in monofase: tirate a lucido, sfavillanti nella loro livrea sgargiante, erano spinte da una potente ma discreta locomotiva a vapore del gruppo 735, che tosto era sganciata e faceva ritorno al deposito. Anche la prima E 492 veniva separata dalle altre per la prima corsa sotto la catenaria monofase.
In un tripudio di folla, il Duce prese posto nell’abitacolo della prima macchina, lo sguardo attento, la mascella volitiva, le mani forti tese ai comandi. Sfrenò, spinse avanti la maniglia della trazione. Per un attimo, parve che la locomotiva volesse moversi. Poi un lieve ronzìo in sottile crescendo.
“Boja d’un mond leder! Questa non si muove!” Urlò sommessamente il Duce all’orecchio del Bianchi, presente in cabina con due suoi tecnici di fiducia. “Eppure sembrava tutto a posto, Eccellenza”, si giustificò il Bianchi, “ora mando subito i tecnici a dare un’occhiata. Dinazzi, Calcaterra! Svelti, su!” Neanche il tempo di dirlo, i due tecnici erano già nel ventre della macchina, a tentar di trovare dove fosse il busillis che inceppava quei meravigliosi congegni. Quando finalmente tutto parve sistemato, il Duce procedette ad un secondo tentativo: ma anche stavolta, un sinistro ronzio, seguito da una raffica di botti e da una robusta fumata azzurrognola, fu l’unico risultato dell’inserzione della trazione, mentre la folla, sulla banchina, ebbra di lambrusco avea creduto trattarsi di fuochi d’artificio.
“Ca t’ vegna ‘n cancher, Bianchi! Che cosa diavolo succede? Volete darmi delle spiegazioni?” E mentre il Bianchi, cereo davanti allo sguardo indemoniato del Duce, abbozzava un timido tentativo di risposta, sul binario attiguo sfilava a tutta birra la 735 incaricata della manovra, con a bordo l’anarchico Mengozzi in preda a un raptus di risate isteriche, il quale proferiva all’indirizzo del Duce e dei gerarchi una sequela di improperi e contumelie che qui non posso riferire.
Paonazzo dalla rabbia, il Duce scese dalla E 492, non prima di aver scaricato una gragnuola di manganellate sul capoccione del Bianchi con il n° 22, quello con il manico in radica intarsiata e i filetti in argento. Con passo deciso e veloce salì sull’Elettrotreno Salone e si lanciò all’inseguimento della vaporiera: il Mengozzi, però, nella sua diabolica mente avea concepito un piano degno del peggiore stratega bolscevico, lasciando la 735 ferma in linea, frenata, dietro una curva nei pressi di Tarquinia ed andando poi a imboscarsi tra i campi, negli anfratti di qualche tomba etrusca.
Il Duce, non appena vide, anzi, non appena intuì la presenza della locomotiva ferma in linea, diede un colpo ben assestato al rubinetto del freno: in uno stridor di cerchioni sulle rotaje, tra gli aromi aciduli dell’ossido di ferro e del creosoto, l’Elettrotreno si arrestò appena in tempo. I suoi respingenti arrivarono giusto ad assaggiare il grasso di quelli del tender della 735, dimostrando, se ce ne fosse bisogno, che il Duce, tra le altre qualità, aveva anche un gran “manico”.
Si seppe poi, grazie ad un’inchiesta riservatissima, che il Mengozzi, alla notizia di un nuovo esperimento ferroviario in corso, era evaso nottetempo dall’Asinara ed aveva raggiunto Civitavecchia a nuoto; ivi si era intrufolato in deposito ed aveva sabotato i circuiti di trazione di tutte le locomotive monofase ordinate dal Bianchi.
Per nascondere al mondo l’onta subita, il Duce ordinò che per qualche anno le E 491/2 fossero occultate alla vista, nascondendole nei più reconditi capannoni dei depositi italiani, in attesa di poter riprendere le prove in tempi più propizi. Nel frattempo, il Bianchi fu condannato a restare inchiodato al tecnigrafo, ceppi ai piedi, con l’ordine di riprogettare completamente le macchine per renderle più sicure ed affidabili. La guerra, però, interruppe questi piani riservò alle nostre locomotive un oblìo molto più lungo, fino a quando, molti anni dopo, non furono scoperte da funzionari e tecnici FS in cerca di (vana) gloria. Illusi!
Ragazzi, a ripensarci adesso, mi viene un tal groppo in gola, che non riesco più a continuare!
Ciao
Andy
p.s.: grazie Manrico e scusa…
|