saint ha scritto:
He he he, ho il berretto di quella ferrovia

(Massawa - Asmara)
ITALIANI!
Trattasi in effetti della ferrovia Massawa - Asmara, fulgido esempio della tecnica tutta Italiana che sommamente rifulse nella Colonia, anzi, nell'Impero!
Mi si permetta (stavo per dire: mi si consenta, ma mi son trattenuto a tempo) a questo riguardo di rispolverare, a benefizio de' più giovini, un vecchissimo episodio ch'a pel protagonista il Duce in persona, svoltosi proprio sulle rotaje della Massawa - Asmara.
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LA VERA STORIA DELLA MASSAWA-ASMARA
di Mengacci Manrico, alias Alalà
Un giorno il Duce, preoccupato per il deludente avanzare dell’Impero in A.O.I., mandò a chiamare il Gerarca più fidato.
- Pavanati!
- Comandi!
- Voglio vederci chiaro. Fammi preparare il Gobbo maledetto, chè andiamo all’Asmara!
Il Gobbo maledetto era il nome di battaglia dell’apparecchio personale del Duce, un trimotore Savoia Marchetti SM79 della R.A., che il Duce era solito, con gran sprezzo del pericolo, Egli stesso pilotare.
Partirono da Ciampino. In meno di un’ora, con il Duce ai comandi, traversarono il Mediterraneo e tra due ali di folla in tripudio atterrarono all’Asmara. Un’altra mezzora, e già erano al cantiere della ferrovia.
Era una torrida giornata d’agosto. Il Duce, i pollici infilati sotto le bretelle che eleganti spiccavano rosse sulla camicia nera, pensoso misurava il terreno avanti ed indietro a lenti passi. Ad un tratto si formò di botto, alzò gli occhi, lo sguardo sprezzante, il petto in fuori, la mascella volitiva (ueh, l’era veramente un bell’uomo il Duce, mi viene un groppo alla gola a pensarci), e così apostrofò il capo cantiere (tale Porcacci Attilio, nativo della provincia di Forlì):
· Camerata! Manca un solo chilometro al congiungimento con la linea da Massawa, e sono due mesi che non si fa un passo! Qui ci vuole un colpo di reni! Raddoppiate, triplicate se necessario i manovali!
· Duce, abbiamo un problema. Non è questione di manovali: sono gli attrezzi, a mancare. Ogni giorno arrivano venti dozzine di chiavi per le chiavarde, e ogni notte mentre dormiamo quei negri selvaggi de' beduini ce le fregano tutte! Guardate, Duce, ce n’è rimasta una sola!
Mentre il Pavanati assestava una sonora quanto meritata manganellata sul cranio ignudo del Porcacci, il Duce avvampò d’ira.
· Datemi una chiavarda, chè vi farò vedere!
Afferrò la chiavarda, e le assestò un pugno così veemente che la fece penetrare sino a metà nella traversina!
Si strappò poi di dosso le bretelle e la camicia nera, e in viril canottiera rimasto, paonazzo in volto per lo sforzo erculeo, avvitò e serrò a fondo la chiavarda con le nude mani.
Nessuno osò fiatare. Il Duce brandì allora la chiave con una mano, ghermì con l’altra una gran manciata di chiavarde (saranno pesate più di un chilo cadauna) e l’una dopo l’altra le avvitò tutte, madido di sudore; e poi un’altra manciata, e poi un’altra ancora.
Al tramonto la linea era terminata. Arrivò da Massawa il treno inaugurale, il Fascio ben in vista.
Il Duce, stremato ma indomito, fradicio ma invitto, si pose ai comandi della locomotiva e partì con un gran colpo di fischio, fendendo la folla oceanica che unanimemente plaudiva e con una sola anima, con una sola voce scandiva: Du-ce! Du-ce! Du-ce! Du-ce! Du-ce! Du-ce!
E qui mi fermo, perché mi è preso un tale groppo alla gola che non riesco più a scrivere!
M.